IL CANYON "LA BOLSA"
- Uliano Massimi
- 28 nov 2016
- Tempo di lettura: 9 min
Chiuso tra le calde pareti del sacco a piuma sento squillare la sveglia del mio orologio da polso. Sono le 4 del mattino e un silenzio tombale aleggia nella stanza. Mi ci vuole un po’ a capire che devo alzarmi. Nel buio della notte percepisco la voce fioca di Quinto. Insieme svegliamo Sandro e Matteo ancora teneramente stretti tra le braccia di Morfeo. Dopo una succulenta colazione ci carichiamo in spalla gli zaini preparati la sera precedente e lasciamo El Bosque, la nostra accogliente quanto spartana casetta di legno in mezzo a un lembo di foresta chiapaneca.
Aspettiamo sul ciglio della strada un qualsiasi mezzo che viaggi in direzione Bochil, un paesino ai piedi di splendidi coni calcarei. Dopo vari tentativi di autostop andati a vuoto finalmente sopraggiunge l’autobus Pichucalco-Tuxtla. Scendiamo a La Tejeria da dove si dipanano due strade che portano l’una in direzione San Cristobal e l’altra verso Simojovel. La nostra meta e’ il villaggio Los Platanos a ca. 7 km dalla strada principale per Simojovel dove arriviamo alle ore 08.00 ca. La nostra presenza non passa per niente inosservata. D’altronde sono ben pochi gli stranieri che si aggirano da queste parti. Imbocchiamo il sentiero sterrato che conduce a El Vergel.
Mano a mano che ci abbassiamo nella valle del rio Baco, ancora coperta da una leggera bruma mattutina, udiamo sempre piu’ chiaramente il rumore delle sue acque selvagge. Un indio con il classico machete a tracolla ci rassicura sul sentiero da noi scelto. Secondo fonti indigene nessuno si e’ mai avventurato lungo il canyon La Bolsa; solo qualche indios si avventura sporadicamente poche centinaia di metri all’interno della gola per pescare. Non sappiamo quello che ci aspetta anche se siamo tutti ottimisti. Dopotutto sono soltanto 6-7 km e in qualche modo ne usciremo.
Raggiungiamo le rive del rio Baco. Stimiamo una portata di 4, forse 5 metri cubi al secondo. Ne seguiamo il corso dalla riva sinistra attraverso piantagioni di caffe’ prima e boscaglia piu’ o meno fitta poi. In piu’ punti guadiamo le acque turbolente del fiume passando da una riva all’altra fino ad arrivare ad uno sparuto gruppo di case dove alcune donne indigene sono intente nei lavori domestici. In alto nella parte opposta della valle degli uomini stanno lavorando nelle proprie piantagioni create con tanta fatica sottraendo il terreno alla foresta primaria.
L’altimetro segna ca. 750 mt. Prima di entrare nella gola le acque del rio Baco si uniscono a quelle di un altro fiume, il Rio San Pablo proveniente da Est-Sud-Est aumentandone la portata. Il fiume ci fa subito capire chi comanda. Stretto tra alte pareti verticali e ostacolato da macigni immensi il fiume acquista potenza e diventa pauroso creando una serie di rapide insuperabili.
Indossiamo la muta in neoprene e l’imbrago speleo che ci permettera’ di superare dei tratti di corda quando necessari. Abbiamo con noi 150 mt di corda e due canottini sui quali metteremo i sacchi con il materiale. Per un po’ ci arrampichiamo su e giu’ per i macigni lungo la sponda sx. del fiume, ma poi le pareti si restringono a tal punto che siamo costretti a salire verso la foresta aprendoci una breccia tra la vegetazione con il machete. La natura ha escogitato diversi trucchi per difendersi dai predatori. A volte esigui alberelli che potrebbero costituire una presa utile per superare tratti ripidi, si rivelano delle vere e proprie macchine da guerra: spine affilate come rasoi ricoprono fusto e foglie. Altre volte esili arbusti ti provocano dolorose irritazioni al semplice sfregamento.
Dopo poche decine di metri avvinghiati da liane super resistenti, ci abbassiamo di nuovo verso il corso del fiume che dopo le rapide sembra tornato tranquillo. Arriviamo sull’orlo di un salto di ca. 5 metri. L’apparente profondita’ dell’acqua invita a saltare. Sandro si lancia per primo scomparendo alla vista. Dopo poco eccolo riemergere come spinto dal basso da una forza titanica. Poi e’ il turno di Quinto che esce dall’acqua su una spiaggetta ghiaiosa sulla riva destra. Costruiamo con la corda una teleferica che ci permette di calare i sacchi senza troppi traumi per il materiale in essi contenuto. Anche io e Matteo apriamo dei buchi nell’acqua che subito vengono richiusi su di noi. La gioia e’ ben visibile sui nostri volti. Nuotiamo tra alte pareti rocciose lasciandoci trasportare dalla flebile corrente. Il divertimento dura pero’ troppo poco. Davanti a noi un rombo disumano anticipa le rapide che si preannunciano imponenti. Nuotiamo cautamente accostandoci alla riva sinistra in una morta. Sandro va in ricognizione seguito da noi tutti curiosi di vedere di persona la causa del rombo. E’ un inferno. Le pareti si avvicinano fin quasi a toccarsi. Rocce dalle dimensioni ciclopiche trascinate da chissa’ quale forza sansoniana giacciono al centro della corrente creando ancora una volta una serie di rapide impassabili.
Arrampicandosi come un gatto su rocce scivolose Matteo risale qualche metro su verso la foresta. Viene posizionata una corda attorno al fusto robusto di un alberello che ci permette di risalire la parete. Pochi metri e il gioco e’ fatto. Ancora una volta dobbiamo machetare per aprirci un varco che ci permetta di guadagnare qualche metro in modo da superare il tratto pericoloso. La selva e' intricatissima. Gli alberi piu’ alti raggiungono i 20 mt ca. ma quello che rende difficile la progressione sono gli arbusti e gli alberi caduti. A volte il vuoto creato dalla caduta di questi colossi provoca una catena di distruzioni. Al loro posto cresce una fitta boscaglia caratterizzata da piante rampicanti che si avvinghiano dappertutto anche alle nostre gambe facendoci barcollare parecchie volte grazie anche agli zaini sulle spalle.
La muta che nell’acqua ci permette di godere appieno delle sue qualita’ isolanti, nella selva diventa un incubo facendoci rapidamente disidratare. Saliamo, scendiamo e poi saliamo senza incontrare forma vivente. Ne’ serpenti, ne’ ragni, ne’ insetti: sembra priva di vita. Ma siamo consapevoli dei rischi ivi presenti. Passiamo a pochi passi da serpenti velenosi, mettiamo le mani a pochi centimetri da rifugi di ragni grandi come mani ma non ce ne accorgiamo e forse e’ meglio cosi’.
Un’altra calata di ca. 15 mt ci riportera’ nelle acque del rio La Bolsa. Questa volta il fiume e’ bloccato da un masso-casa. Durante la stagione delle piogge probabilmente l’acqua passa al di sopra e non possiamo nemmeno immaginare cosa potrebbe significare trovarsi in questo posto in quel periodo. A destra e a sinistra del masso due sifoni rendono molto pericolosa la discesa. Sandro scende per primo. Gli facciamo sicura dall’alto per evitargli una immersione fuori programma che sicuramente lo condurrebbe verso una morte certa.
Sale sul masso che sembra una saponetta, lo traversa ed entra in una marmitta per assicurare la discesa degli altri.
Quinto scivola sul masso prima di giungere alla marmitta e finisce a mollo vicino all’imbocco del sifone dentro ad una poltiglia biancastra prodotta probabilmente dai detriti vegetali. Come una molla scatta di nuovo sopra al masso.
Dietro la curva il paesaggio che il fiume ci riserva e’ fiabesco. Alcune cascatelle sul lato dx. del rio creano un effetto doccia . Ci passiamo sotto approfittando del massaggiatore naturale. Le rocce scure sono ammantate di muschio nei pressi delle cascate. Scivoliamo sul filo della corrente fino al prossimo ostacolo che si preannuncia particolarmente insidioso. Oramai siamo abituati a continue deviazioni tra una sponda e l’altra per evitare le rapide. A volte pero’ quando il dislivello e’ minimo usiamo i sacchi come protezione e ci lasciamo trascinare dalla corrente attraverso le rapide cercando di galleggiare nell’acqua al fine di evitare cozzate dolorose contro le rocce semi-sommerse. Non c’e’ altra via che quella del fiume o delle sue immediate rive. Le pareti sono aggettanti e ricoperte da fitta vegetazione.
Nel tardo pomeriggio giungiamo in vista di radure occupate da campi di mais, segno tangibile di una presenza umana nell’area. Arriviamo ad un gruppo di capanne costruite con legno e paglia abitate da uno sparuto numero di indios.
Visto il sopraggiungere delle tenebre chiediamo il permesso di poterci accampare per la notte. L’uomo parla solo tzoltzil, una lingua che deriva dal maya, ma sembra di aver capito. Si allontana e un attimo dopo lo vediamo tornare con alcuni uomini seguiti da donne e bambini. Alcuni di loro parlano un po’ di spagnolo e ci fanno alcune domande del tipo: Cosa fate qui, Cosa volete, Perche’ siete qui?. Rassicurati ci lasciano tranquilli con le nostre cose umide. Piove. Non e’ facile capire perche’ 4 persone decidano di scendere un fiume dove non c’e’ sentiero e per giunta non navigabile. Piantiamo la tenda approfittando di una interruzione della pioggia. Scopro con orrore che il mio barattolo stagno non era poi cosi’ stagno. I miei ricambi sono completamente zuppi. Fortuna che avevo una maglietta maniche corte nella sacca stagna di Sandro. Mentre gli altri si vestono cercando di togliersi di dosso l’umidita’ residua, io non so proprio cosa mettermi. Indossata la maglietta mi accovaccio vicino al fuoco acceso nel frattempo dall’indio per cercare di riscaldarmi. I miei compagni si chiudono in tenda mangiando tortillas e tonno e cio’ che e’ sopravvissuto dal nostro barattolo viveri. L’indigeno mi offre, per 5 miseri pesos, del mais che annacquo dentro ad una ciotola di acqua fredda. Ha un sapore insipido ma spero che sia abbastanza nutriente.
Espletate le formalita’ serali, me ne vado nella tenda a riposare. Non riposero’ affatto e la notte sara’ lunghissima e umida. Senza sacco a pelo, senza materassino allo scopo di sacrificare la comodita’ per la leggerezza la notte si trasforma in un incubo senza fine.
Solo il telo termico ci separa dall’umido suolo. E per giunta mentre gli altri hanno maglie asciutte e pile pesanti, io ho solo una maglietta a maniche corte e la nuda pelle nelle gambe dilaniate da rocce e spine. Tremo, tremo come una foglia. Esco a riscaldarmi tra le imprecazioni dei miei compagni di avventura. Sono soltanto le 01.00 della notte e spero di vedere qualche tenue bagliore all’orizzonte che indichi la vicinanza dell’alba. Ma cio’ e’ impossibile.
Dopo l’ennesimo giro di riscaldamento rientro in tenda. Siamo in 4 ma la tenda e’ da 3 posti, pertanto dobbiamo dormire a schieramento alternato, vale a dire che l’uno deve respirare l’odore dei piedi dell’altro. Speravo che cio’ costituisse un buon sonnifero, ma mi sbagliavo di grosso. Non so come stanno vivendo questa notte gli altri, ma sento che Quinto a volte russa, e allora penso che dorme. Continuo a cambiare posizione per evitare l’ibernazione, sento l’umidita’ penetrare fino al midollo. Mi giro e rigiro come un pollo allo spiedo senza trovare soluzione al problema.
Alle 04.30 il nostro padrone di casa si alza, accende il fuoco e comincia la preparazione delle tortillas. Dopo pochi minuti mi decido ad uscire definitivamente da quella trappola umida e mi accoccolo vicino al fuoco appena acceso sperando di decongelarmi. Con molta maestria prepara una ad una le sue tortillas che poi costituiranno il suo pane quotidiano. Usa esclusivamente strumenti in legno piuttosto rudimentali quanto funzionali. Piu’ di una volta deve provvedere ad una veloce sistemazione dell’arnese, ma alla fine raggiunge il suo scopo.
La nostra tenda comincia a muoversi segno che dentro i ragazzi si stanno risvegliando da questa tormentata notte insonne. E’ l’alba. Mentre smontiamo il campo e prepariamo gli zani il nostro padrone di casa si prepara a lasciare la sua capanna per andare al lavoro nel bosco. Chiude lo spazio che funge da porta tra due dei tanti pali di legno che la costituiscono, aggiungendone un altro, prende un vecchio fucile e si mette a tracolla una bisacca con del cibo. Aspetta che noi terminiamo i preparativi per accompagnarci fuori dal villaggio. Salutiamo i pochi presenti e ce ne andiamo anticipati nel sentiero dall’indio col fucile.
Dopo 20 minuti circa arriviamo ad una radura dove sembra esserci passata una ruspa. E’ lui l’artefice di tutto cio’. Prende in mano una ascia e ci spiega che il suo compito ora e’ quello di abbattere tutti gli alberi di quell’area per far posto a dei coltivi. E’ triste vedere tutti quegli alberi abbattuti, ma almeno costoro lo fanno per la propria sopravvivenza.
Seguiamo il sentiero che a volte si perde nella fitta boscaglia, rendendo inutili i nostri tentativi di trovare la giusta strada. Decidiamo a volte di entrare nel fiume lasciandoci trasportare dalla corrente attraverso le oramai dolci rapide, ma altre volte siamo costretti a combattere con il machete alla ricerca di una via di uscita.
Non ne possiamo proprio piu’ del rio La Bolsa. La stanchezza fisica comincia a farsi sentire e con essa quella psicologica. Dobbiamo arrivare in vista di un ponte stradale nei pressi del quale dovremmo trovare la strada che poi ci portera’ a El Bosque lungo la strada che collega Bochil con Simojovel.
Ma del ponte nemmeno l’ombra. Prendiamo un sentiero in salita che attraversa piantagioni di caffe’. Scavalchiamo due piccole valli laterali e dall’alto ci rendiamo conto di quanto poco mancasse per raggiungnere il fatidico ponte. Dopo almeno 2 ore di cammino su un sentiero ripido e sotto un sole che brucia la pelle arriviamo nel villaggio di Chavajebal.
Sembriamo degli zombies e forse e’ per questo che ci osservano cosi’ meravigliati gli abitanti del villaggio. Ci stiamo dissetando in un bar
(chiamiamolo cosi’) davanti alla scuola dove tutti i bambini ci osservano incuriositi. Anche gli adulti lo fanno. Si’ e’ vero, siamo conciati male, ma mi sembra esagerato. In effetti siamo tra i pochi turisti giunti fin qui viste le condizioni politiche in cui era il Chiapas fino a pochi anni fa. Capiamo di essere in una delle roccaforti del movimento zapatista di liberazione e dopo poco siamo avvicinati da alcuni adulti e in meno che non si dica una marea di bambini incuriositi dalla situazione.
Ci fanno capire di essere indesiderati e ci chiedono il motivo della nostra presenza. Cerchiamo di farglielo capire, ma come puoi pensare di spiegargli che siamo quattro speleologi-torrentisti venuti dall’Italia a proprie spese per scendere il fiume a nuoto ? Beh, finalmente l’uomo che avevamo nel frattempo contattato per trasportarci alla cittadina di El Bosque arriva togliendoci dai guai. Il ritorno avviene senza troppi intoppi e a Bochil, dove la presenza di una postazione militare testimonia la non facile convivenza con il movimento zapatista, ci rilassiamo in un ristorantino prima di rientrare al campo, la nostra casetta nel bosco di Yerbabuena.
Aprile 2001
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