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NEL REGNO DEL PUMA

  • Immagine del redattore: Uliano Massimi
    Uliano Massimi
  • 28 nov 2016
  • Tempo di lettura: 7 min

Giganteschi gruppi di camelidi e figure antropomorfe create sovrapponendo pietre da popolazioni primitive lungo le sterili pendici della valle del rio Lluta, osservano muti il mio lento procedere verso l’altopiano cileno. Il sole non riesce a penetrare la fitta camanchaca, pregiata umidita’ proveniente dall’Oceano Pacifico, che spesso si spinge per parecchi chilometri all’interno di questo arido territorio. Le coltivazioni, prevalentemente mais, pomodori e olive sono concentrate in una stretta fascia verde a ridosso del fiume che sfocia in un ampio delta nei pressi della citta’ di Arica da dove sono partito.

Dopo Poconchile la strada si allontana dalla fertile valle per cominciare a traversare la Cordigliera della Costa con lunghe e ripide salite. Rimango senza acqua a pochi chilometri dalla Quiborax, una industria chimica che processa il boro proveniente dal salar de Surire. A mezzogiorno il sole diventa insopportabile. Tra i 1.700 e i 3.000 mt di quota le uniche forme di vita, seppur vegetale, sono esili esemplari di cactus candelabro abbarbicati lungo le pendici della cordigliera o nei letti di fiumi ora asciutti. Una piccola cappella votiva a ricordo di uno dei tanti camionisti che percorrono la strada internazionale mi regala pochi minuti di ombra.

Il sole sta per completare un altro arco nel cielo. La temperatura si abbassa repentinamente. Poco prima del crepuscolo mi fermo esausto alla posada Thaki di Andrea e Alexis a quota 2.900 mt. Un vecchio carrozzone gitano ospita la coppia e i loro quattro figli: Mallku, Crystalia, Mahatma e Kael. Completa la loro casa una struttura fatiscente in legno una parete della quale e’ interamente occupata dall’enorme forno di argilla dove sono soliti cuocere del buon pane per i viandanti e i pochi turisti che si fermano a degustare una tisana di foglie di coca o dell’ottimo formaggio di capra prima di continuare verso l’altopiano.

Un milione di tonnellate di terra mista a polvere di cianuro, scorie della miniera d’oro un tempo fiorente, formano delle collinette poco lontano dalla loro abitazione. Alcune decine di metri separano queste collinette di morte da una profonda incisione valliva scavata dal rio San Jose’ che sfocia nell’Oceano Pacifico dopo aver attraversato la fertile valle di Azapa e le sue piantagioni di olivi. Andrea mi guida dentro una valle, un tempo lambita da un torrente, caratterizzata da numerosi anfratti rocciosi dove antichi nuclei familiari hanno disegnato con l’ocra un numero considerevole di pitture rupestri rappresentando scene di caccia, riti sacri, danze rituali. Alcune di queste risalgono a quasi 9.000 anni fa. Dopo tre giorni dal mio arrivo alla posada Thaki, acclimatato e pieno di energia, rimonto in sella al mio fido compagno di avventura diretto verso il confine con la Bolivia. La strada dopo Zapahuira si incunea tra le montagne aggirando profondi canyons. Da ore continuo a salire lungo questo tracciato a tratti sterrato pregando invano la fine di questa lenta “agonia muscolare”. Guanaco selvatici mi osservano curiosi dall’alto di rocce strapiombanti mentre scatto alcune fotografie a splendidi fiori senza nome. La sera mi sorprende a pochi chilometri dal rifugio Las Cuevas del Conaf, l’organismo responsabile della salvaguardia di tutti i parchi cileni. Il candido mantello di neve del vulcano Sajama in lontananza mi toglie il fiato facendomi dimenticare di colpo le fatiche sansoniane che in due giorni mi hanno portato dai 2.900 mt della posada Thaki ai 4.300 mt del rifugio del Conaf oramai a portata di pedale. Viscacce impaurite dalla mia presenza scappano tra le rocce mentre alcuni vigogna pascolano indisturbati lungo le rive di un torrente che scorre parallelo alla strada. Le mie speranze di dormire al calduccio in compagnia del guardiaparco crollano improvvisamente quando realizzo che non ci sara’ nessuno ad aprirmi la porta. La stanchezza, il freddo, e la quota potrebbero essere un cocktail perfetto per il mal di montagna e il leggero mal di testa comparso oramai da qualche ora non fa presagire nulla di buono. Mi pento di non essermi procurato le foglie di coca a Putre dove mi ero fermato per approvvigionarmi. Un vento gelido scende dall’altopiano. Milioni di stelle riempiono il firmamento facendomi sentire meno solo. Dopo una abbondante zuppa calda di cereali entro nel mio pesante sacco a pelo sperando che la notte passi presto e senza problemi. La paura per il mal di montagna e il freddo mi tengono sveglio parecchie ore prima di abbandonarmi esausto in un sonno profondo.

Quando mi sveglio un leggero strato di brina ricopre la tenda a testimoniare le gelide temperature notturne. Una stalattite di ghiaccio riempie la bottiglia di plastica che avevo tenuto a portata di mano tra i due teli della tenda. Sento tutta la stanchezza di una notte travagliata, ma il pensiero che la prossima notte dormiro’ al caldo a casa della signora Magdalena nel piccolo pueblo di Parinacota mi ricarica un poco. La natura sembra aver concentrato qui buona parte delle sue energie per creare un paradiso: il vulcano Parinacota e il Pomerape svettano, ricoperti in parte da nevi perenni, sull’altopiano dove decine di vigogna brucano senza sosta alla ricerca di cibo. Un mulinello di polvere sollevata da un vento gelido mi da’ il benvenuto nel piccolo villaggio di Parinacota dove alcune donne vestite con gonne colorate e bombette vendono souvenirs, bibite e carne di alpaca essiccata. Vago nel villaggio semi-abbandonato in attesa del ritorno di Magdalena, ora al pascolo con i suoi lama. La chiesa di Parinacota, ricostruita in pietra nel 1789,conserva nel suo interno pregevoli affreschi consumati dal tempo. La mattina successiva mi dirigo verso le lagune di Cotacotani, 600 ha di specchi d’acqua color smeraldo ricchi di vita animale interconnessi tra loro e al lago Chungara’ attraverso filtrazioni sotterranee.

Sulle rive del lago Chungara’, ai piedi dei vulcani gemelli, costruiscono il nido folaghe giganti, gabbiani andini, numerose specie di anatidi e i coloratissimi fenicotteri rosa ( Phoenicoparrus andinus), una delle tre specie endemiche che vive in Cile.

Quando mi risveglio da un sogno reale durato tre giorni, mi ritrovo madido di sudore spingere la bicicletta su di una salita impossibile completamente ricoperta da cenere vulcanica imprecando contro i carabineros cileni che mi avevano rassicurato sulle condizioni della strada che porta alle terme di Churiguayo. Acqua sulfurea a 70° sgorga da alcune polle tra le rocce mescolandosi alle acque superficiali del vicino ruscello abbassandone la temperatura. Le luci del crepuscolo mi ricevono a Guallatiri, un minuscolo villaggio ai piedi del vulcano omonimo, uno dei piu’ attivi della regione visto il costante pennacchio di vapori sollevati dal vento lungo il pendio meridionale.

Solo la mattina successiva mi rendo conto che Guallatiri e’ pressoche’ un villaggio fantasma dove la maggior parte delle abitazioni sono distrutte e i pochi abitanti vi fanno ritorno soltanto durante i fine settimana. Un colpo di vento mi sospinge via da questo luogo dimenticato da Dio proprio mentre due, forse tre giganti della strada, diretti alle miniere di boro del salar de Surire, sollevano una nube bianca di polvere. Alti nel cielo due condor disegnano ampi cerchi concentrici perlustrando il terreno di caccia. Lunghi rettilinei intervallati da brevi salite conducono in cima ad un valico. Laggiu’, circondato da montagne e vulcani spenti, mi appare come per magia il salar de Surire, una enorme distesa di sale ricoperto di acqua soltanto durante la stagione delle piogge che cade nei mesi di gennaio e febbraio. Ora solo alcune piccole lagune sul lato meridionale sopravvivono sostentando una moltitudine di uccelli limicoli. Un container di lamiera nei pressi del rifugio del Conaf sara’ la mia nuova casa per i prossimi due giorni.

Sulle rive biancastre ricche di sali, gruppi di vigogna sono soliti preparare il giaciglio notturno ripulendo il terreno da detriti e da piccole pietre. Mucchi di escrementi sparsi qua’ e la’ testimoniano il luogo di defecazione. Ogni anno, in questo periodo per tre giorni, centinaia di vigogna vengono catturati per prelevarne la lana molto pregiata i cui proventi vanno a favore delle popolazioni aymara che abitano l’altopiano assicurando la conservazione della specie. Surire, un villaggio aymara, sulle colline prospicienti il lago, conserva tuttora abitazioni tradizionali costruite in mattoni di adobe e con tetti di paglia. Una piaga dell’altopiano e’ la vinchuca, una cimice che vive a suo agio nella paglia dei tetti e nelle crepe dei muri di argilla. Questo insetto ematofago, durante i suoi pasti notturni a danno degli abitanti locali, potrebbe trasmettere una seria malattia: il morbo di Chagas o malattia del sonno americana, una infermita’ che distrugge lentamente il sistema nervoso centrale impiegandoci a volte anche 10 anni ma che sfortunatamente non lascia scampo.

Nel lato sud-est del salar una sorgente di acqua calda sgorga naturalmente dal terreno riscaldando le acque piu’ fredde superficiali e creando una invitante piscina naturale. Il vento “polare” che spazza il salar nel pomeriggio smorza qualsiasi desiderio di un bagno caldo. Una famigliola di nandu, lo struzzo sudamericano, corre impaurita dalla mia presenza attraverso la bianca superficie del salar.

Il tramonto e’ un evento imperdibile in questo luogo fuori dal tempo e pervaso da un silenzio struggente, un incantesimo rotto a volte solo dallo stridio dei caiti’ e degli ibis eremita intenti a consumare la cena. Il sole e’ gia’ alto quando esco dalle calde pareti del mio sacco piuma all’interno del container “frigo”. Ripulita la catena e i rapporti della bici dalla sabbia, come un automa carico i bagagli e lascio il rifugio Conaf.

La strada costeggia il salar per poi deviare bruscamente verso sud. Lentamente risalgo una collinetta fino ad attraversare un villaggio abbandonato. Continuo a salire. Mi ci vogliono quasi tre ore per raggiungere i 5.000 mt del valico circondato da montagne spoglie. Qui, al riparo di una roccia, sbrano l’ultima pagnotta e l’ultima busta di carne di alpaca essiccata prima di affrontare la meritata discesa. Alberi di quenua ( Polylepis rugulosa ) dai tronchi contorti crescono lungo ripidi pendii rappresentando la specie arborea piu’ “alta” del mondo. Le calaminas, classiche ondulazioni del terreno create dai mezzi motorizzati, e un vento frontale teso e costante bloccano il contachilometri sui 5 km/h mettendo alla prova i miei nervi.

Mi trascino oramai in preda ad una stanchezza estrema e a ripetute crisi di nervi tra le mura di Enquelgue, una cittadina ai piedi del vulcano Isluga. Una coppia di anziani mi ospita nella loro casa offrendomi una brodaglia calda che non abbattera’ affatto il mio appetito.

La mattina successiva il vecchio aymara con movimenti precisi e cadenzati fila la lana di lama in un rocchetto che poi verra’ usata per confezionare abiti o tappeti. Alcuni bambini sull’uscio della scuola salutano la mia partenza verso una meta sempre piu’ vicina. Superato il villaggio aymara di Isluga ritrovo l’asfalto che sale da Iquique e che in breve mi conduce al piccolo villaggio di frontiera di Colchane, la fine del viaggio. Mentre tento di recuperare le energie accovacciato sotto il cartello stradale “ Colchane “,vedo un anziano spingere la propria bicicletta nella mia direzione. In tono speranzoso mi chiede: “ Senor, tienes un bombillo por favor ? “ ( Signore, ha una pompa per favore?).

Gennaio 2004

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